Il valore della sofferenza

Alcuni articoli sul valore della sofferenza pubblicati sul blog Come Gesù

 

Il valore salvifico della sofferenza


Il prossimo 11 febbraio si celebra la Giornata del Malato e in occasione di questa ricorrenza, nel 1984, San Giovanni Paolo II pubblicò la Lettera Apostolica “Salvifici Doloris”; anche se sono passati  più di trent’anni, penso che sia sempre più attuale riprendere e meditare questo documento. La Lettera comincia con queste parole:

« Completo nella mia carne - dice l'apostolo Paolo spiegando il valore salvifico della sofferenza - quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa »(1). Queste parole sembrano trovarsi al termine del lungo cammino che si snoda attraverso la sofferenza inserita nella storia dell'uomo ed illuminata dalla Parola di Dio. Esse hanno quasi il valore di una definitiva scoperta, che viene accompagnata dalla gioia; per questo l'Apostolo scrive: « Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi »(2). La gioia proviene dalla scoperta del senso della sofferenza, ed una tale scoperta, anche se vi partecipa in modo personalissimo Paolo di Tarso che scrive queste parole, è al tempo stesso valida per gli altri. L'Apostolo comunica la propria scoperta e ne gioisce a motivo di tutti coloro che essa può aiutare - così come aiutò lui - a penetrare ilsenso salvifico della sofferenza.

La Lettera Apostolica parla ampiamente di come Gesù stesso e poi gli Apostoli e tutta la Chiesa si siano sempre adoperati per alleviare, per quanto fosse possibile, le sofferenze fisiche o morali della gente, come segno di amore, di compassione e di vicinanza, ma sottolinea anche come la sofferenza che non si riuscisse ad alleviare completamente, non sia una sofferenza senza senso, tale da costituire, per chi la patisce, una specie di “ingiustizia divina”, da cui liberarsi con ogni mezzo.

Parlando in questi giorni di eutanasia, penso che sia importante non dimenticare queste riflessioni avvalorate dalle parole di San Paolo e di tanti altri santi della Chiesa, tra i quali ad esempio Santa Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein) e Santa Teresa di Calcutta, e noi cristiani non possiamo dimenticare che il valore salvifico della sofferenza può essere suggerito agli ammalati con delicatezza. Anche se credo che per una legge civile si debbano dare motivazioni che riguardino la difesa del bene comune (anche la legge dell’amore non può essere tradotta immediatamente in legge civile positiva), l’accettazione e santificazione della sofferenza, vissuta da tanti cristiani, è una testimonianza importante che può aiutare tutti ad affrontare con serenità tutti i momenti della vita, da quelli più ordinari a quelli più dolorosi.

 

Ancora sulla sofferenza


Penso che le seguenti riflessioni siano superflue per un buon numero di frequentatori di questo blog, ma, forse, potrebbero essere necessarie per il target ideale dell’amministratore. Le faccio quindi per favorire una maggiore comprensione per tutti e per cercare di dissipare eventuali equivoci.

La sofferenza ed il dolore, per un cristiano, sono la conseguenza del peccato (talvolta anche del peccato personale, ma in generale del peccato originale e dei peccati che da allora continuano a commettere tutti gli uomini). Per questo, sofferenza e dolore sono parte dei mali che affliggono tutta l’umanità e, da questo punto di vista, se si potesse, è giusto volerli evitare.

Ma non sempre è possibile evitarli, sia nelle relazioni con gli altri, che spesso ci fanno soffrire (per colpa nostra o degli altri), sia nelle relazioni con il mondo, malattie e incidenti di vario genere; inoltre tutti prima o poi dovremo morire (alla morte sono associate sofferenze sia fisiche che psichiche).

Parlare quindi di valore salvifico della sofferenza non significa voler far diventare buona una realtà che non lo è, ma significa scoprire che questa realtà di male può essere sopportata e valorizzata per una finalità più alta.

La sofferenza ed il dolore non hanno un valore positivo in se stessi, ma per il motivo per cui si sopportano, quando il sopportarli è necessario o conveniente.

Aggiungo, per ora che ci sarà un motivo in più per l’inizio della Quaresima, che l’allenamento alle piccole sofferenze e privazioni, anche volontarie, aiuta a fortificarsi e ad essere capaci di sopportare la sofferenza quando lo richiedono l’amore ed il servizio a Dio e al prossimo, sia nelle relazioni familiari, che nelle relazioni sociali.

La pazienza, la benevolenza, l’umiltà, la sopportazione per essere esercitate con signorilità hanno bisogno di un frequente esercizio, il cui motivo, oltre che l’amore umano per chi ti sta vicino, può essere anche l’amore per un Dio “che mi ha amato e ha dato la sua vita per me”.

La stessa cosa vale per ogni genere di malattia, dalle più piccole alle più grandi, con il buon senso di non pensare di essere migliori se si sopporta di più, perché ciò che conta non è la capacità di sopportare, ma quella di amare.

 

Nel Vangelo non si parla di mortificazioni?


Alcune persone hanno posto in dubbio che la mortificazione volontaria non si trovi nelle parole di Gesù dei Vangeli. Una piccola premessa, non strettamente necessaria in questo caso, è quella che riguarda la comprensione della Parola di Dio, che per un cattolico non è né con la sola esegesi del Vangelo, né con la sua libera interpretazione (ma con l’interpretazione data dal Magistero di tutta la Sacra Scrittura e la Tradizione).

La predicazione di Gesù si svolge in continuità con quello che era insegnato nella “Legge e nei Profeti” dove si parla abbondantemente di digiuni e sacrifici ed anche San Giovanni Battista aveva una vita ben austera, tanto da essere elogiato da Gesù come il più grande tra i nati di donna (Cfr Mt 3,4; Mt 11,7-18). Gesù stesso parla di penitenza e si lamenta che le città dove ha predicato non l’abbiano fatta (Cfr Mt 11, 21).

Gesù ha fatto precedere il suo ministero pubblico da quaranta giorni e quaranta notti di digiuno (Cfr Mt 4,2) e, dopo aver annunciato le beatitudini (Cfr Mt 5,3-10) invita a “praticare opere buone” (non per essere ammirati) e tra queste opere buone ci sono l’elemosina (Cfr Mt 6,3-4) e il digiuno (Cfr Mt 6,16-18). Riguardo all’elemosina, il suo valore non dipende tanto dai benefici ottenuti da chi la riceve, ma dalla disposizione di chi la fa (Cfr Lc 21,2-4). E il digiuno, anche se poco praticato con Lui, Gesù dice che i suoi discepoli lo faranno (Cfr Mt 9,14-15).

Gesù invita a praticare il distacco per essere liberi da affanni e preoccupazioni (Cfr. Mt 6,25-34; Mt 13,20-22); di essere disposti alla rinuncia per non peccare e dare scandalo (Cfr. Mt 5,29-30; Mt 7,13-14) e a chi lo segue più da vicino chiede di lasciare tutto (Cfr. Mc 6,8; Mt 10,37-39; Mt 19,21).

Nell’esercizio della carità verso gli altri si deve saper soffrire (Cfr. Mt 5,40-42; Mt 25,31-46; Lc 14, 12-14), non pensando se mi va, se me la sento o se quelli a cui faccio del bene cambieranno, mi ringrazieranno o smetteranno di farmi del male (Cfr Mt 5,11-12).

Digiuno, elemosine, distacco e sacrifici che cosa sono, se non mortificazioni volontarie? Certamente queste cose non bastano da sole per salvarsi, né tanto meno servono per inorgoglirsi e sentirsi superiori agli altri (Cfr. Lc 18,9-14).

Perché Gesù ci invita a soffrire fame e sete (digiuno)? Perché ci invita a privarci di qualcosa che ci serve (elemosina e distacco)? Perché ci invita a soffrire, sopportando maltrattamenti e ingiurie, anche se gli altri non se ne accorgono o le fraintendono e non cambieranno? Il suo comandamento principale è di amare Dio e il prossimo, e di amarci come Lui ci ha amato (con la forza dell’inabitazione della Trinità in noi), ma sa anche che nel mondo bisogna saper affrontare la sofferenza, conseguenza del male, che Lui ha vinto (Cfr Lc 14,27.33; Gv 15,18-20; Gv 16,33).

Questo vuol forse dire che Gesù invita a soffrire il più possibile? No, ma se non si è disposti ad affrontare la sofferenza con Gesù, non sapremo neanche amare né Dio, né il prossimo. Le mortificazioni volontarie non sono un fine, ma sono un mezzo necessario che richiede una giusta moderazione.

La riflessione sulle pratiche penitenziali, la mortificazione ed il mistero della sofferenza fatta nel corso dei secoli dal Magistero della Chiesa, sulla base anche della testimonianza, tra gli altri, degli Atti degli Apostoli (Cfr At 13,2-3) e delle Lettere da San Paolo, può essere ben riassunta da questo passo della “Salvifici Doloris”:

“[…] La redenzione, operata in forza dell'amore soddisfattorio, rimane costantemente aperta ad ogni amore che si esprime nell'umana sofferenza. In questa dimensione - nella dimensione dell'amore - la redenzione già compiuta fino in fondo, si compie, in un certo senso, costantemente. Cristo ha operato la redenzione completamente e sino alla fine; al tempo stesso, però, non l'ha chiusa: in questa sofferenza redentiva, mediante la quale si è operata la redenzione del mondo, Cristo si è aperto sin dall'inizio, e costantemente si apre, ad ogni umana sofferenza. Sì, sembra far parte dell'essenza stessa della sofferenza redentiva di Cristo il fatto che essa richieda di essere incessantemente completata. In questo modo, con una tale apertura ad ogni umana sofferenza, Cristo ha operato con la propria sofferenza la redenzione del mondo.”

 

Amore alla Croce


La cultura occidentale consumista ed edonista, che si illude di poter eliminare il dolore e la sofferenza dalla vita dell’uomo è ormai priva delle categorie cristiane per comprendere il valore della sofferenza e della Croce. Alcuni nuovi maestri vorrebbero convincerci che ormai ci si deve aggiornare e parlare del messaggio cristiano solo come amore spensierato, festa e banchetto eterno. Già San Paolo metteva in guardia dai “nemici della Croce di Cristo”, che predicavano un Vangelo “diverso”, privo della “stoltezza” e dello “scandalo” della Croce.

Non penso che ci sia bisogno di ribadire ancora una volta, anche con San Paolo, che ciò che caratterizza il cristiano è la carità e che senza la carità, non solo la sofferenza, ma anche la fede e la dottrina non servono a nulla (Cfr. 1 Cor 13, 1-3). Ma la carità non è il sentimento spensierato di voler bene a tutti spontaneamente (Cfr. 1 Cor 13, 4-11).

Quando la Chiesa esamina la vita di coloro che poi propone come Santi da venerare, la prima cosa che vede è come hanno esercitato tutte le virtù cristiane, la prima delle quali è la carità (l’amore a Dio e al prossimo), poi la fede, la speranza, le virtù cardinali, l’umiltà, la pazienza, ecc … Mancando qualcuna di queste virtù, il processo non prosegue.

Nella vita di alcuni mistici, oltre all’esercizio di tutte le virtù, l’amore per Gesù, vero Dio e vero uomo, li ha portati a desiderare di imitarLo e di condividere con Lui, in umile accettazione della Volontà di Dio, quelle sofferenze che ricevevano nella vita (prove, maltrattamenti, malattie, ecc …).

La meditazione sulla profezia di Simeone a Maria, sull’invito ai tre discepoli eletti nel Getzemani, sull’esigenza di prendere la croce e di lasciare tutto per seguirLo, sulla profezia di Gesù a Pietro (“quando sarai vecchio …”), sulle parole di San Paolo sulla Croce, ecc … ha portato questi Santi al desiderio di volerGli stare vicino anche nella Croce.

Se uno guardasse Gesù come se fosse un uomo del passato, ormai morto e sepolto, che ha già concluso da solo la sua missione, e con il quale non può esserci un rapporto diretto di corrispondenza d’Amore, non capirebbe mai questo desiderio di condividere con Lui la Sua Passione (Cfr. Gal 2, 20: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me.”). Quest’ultimo è il modo con cui noi cristiani dovremmo guardare Gesù e quello con cui Lo guardavano Santa Caterina, Santa Gemma, Santa Edith Stein, San Giovanni della Croce e un’infinità di altri Santi e Sante della Chiesa.

Ciascuno di noi ha la sua strada e per seguire Gesù si deve cominciare dalle cose più semplici e che sono alla nostra portata, senza illudersi di voler cominciare da gesti o opere alle quali i Santi sono arrivati dopo un lungo percorso (non necessariamente lungo nel tempo) di crescita nell’amore.

Talvolta gli equivoci sono dovuti ad un’agiografia dai toni esagerati, ma, soprattutto chi vuole ritenersi cristiano, dovrebbe essere prudente nell’emettere sentenze superficiali ed ironiche sulla vita interiore di un Santo.